Mancano oltre 2 mesi all’ingresso “ufficiale” di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio).
La “discontinuità” è sempre un passaggio delicato, ma mai, forse, è stata così evidente come in questa occasione. Moltissime sono le attività, in primis quelle costituzionali, che devono essere adempiute prima che la nuova Amministrazione si insedi, e il tempo certamente non è molto (si comincia proprio oggi, con le porte della Casa Bianca si riaprono per il nuovo Presidente, invitato, come “buona creanza” richiede, dal Presidente uscente a “bere un the”).
Prende forma, anche, la nuova Amministrazione: dai nomi che si leggono, il neo Presidente sembra confermare il piglio da “falco”, a partire dalla politica estera e dalla sicurezza interna, ostentato durante la campagna elettorale, uno dei fattori che non hanno “lasciato scampo” agli avversari. Nella lista non appare “l’amico geniale” Elon Musk, il cui ruolo, peraltro, di “team principal” al momento è fuori discussione (che lo porta a uscite, sotto certi aspetti, “fuori controllo”, vedi quella di ieri relativa ai giudici italiani): tra l’altro, essendo nato in Sud Africa e cittadino canadese, anche se naturalizzato americano, un suo ruolo “ufficiale”, come segretario di qualche Ministero, potrebbe essere messo in discussione (oltre che, evidentemente, “stargli stretto”, vista la sua indole che lo porta spesso ad essere “fuori controllo”, vedi quando, durante la presentazione dei dati di Tesla agli analisti, qualche anno fa, si è messo a fumare marijuana come se nulla fosse).
Tra i tanti temi, indubbiamente quello economico è probabilmente il più importante, se non altro perché “travalica” i confini nazionali, impattando sull’andamento globale dell’economia (fermo restando che qualsiasi provvedimento, come per esempio, sulle politiche migratorie, una qualche conseguenza l’avrà su altri Paesi, visto che gli Stati Uniti sono una sorta di “benchmark”).
Rispetto al 1° incarico (correva l’anno 2016), il magnate americano si troverà ad affrontare problematiche un po’ diverse e, in alcuni casi, che restringono non poco i suoi spazi di manovra (ma ne dovrebbe essere consapevole, visto che durante questi 4 anni – la sua campagna elettorale è partita da lontano, essendosi, come ben sappiamo dai fatti di Capital Hill, sentito “derubato” della rielezione – ha sempre fatto riferimento alla “deregulation”, con riferimento, evidentemente, soprattutto ai “vincoli” imposti dall’economia).
La differenza forse maggiore è quella relativa al debito pubblico, passato da $ 19,9 trilioni (19,9 mila miliardi) a $ 33,6 trilioni (il 69% circa in più). E’ certamente aumentato anche il PIL, cresciuto da $ 18.62 trilioni a $ 27,36 trilioni, ma a ritmi ben inferiori (+ 47%, tra l’altro aiutato anche dalla spirale inflattiva). Si trova, quindi, il neo Presidente, a scontrarsi con un rapporto debito/PIL del 122%, mentre 8 anni fa eravamo al 106%. Un dato reso ancora più percepibile analizzando il deficit/PIL, più che raddoppiato, essendo passato dal 3,10% al 6,70%. Numeri quasi “italiani”, con la differenza che, per quanto pericolosi anche a quelle latitudini, “loro” se li possono permettere (magari “facendoli pagare”, almeno in quota parte, agli altri Paesi, visto che, tra le altre cose, hanno una valuta che si chiama $…), mentre noi “dobbiamo rendere conto”. Certo è che mantenere un debito così elevato, considerati i tassi correnti, iniziare a costare tanto anche per gli Stati Uniti, avvicinandosi sempre di più la vetta dei $ 1.000 MD per spesa interessi (ormai siamo in zona $ 900 MD).
Gli unici dati migliorativi sono quelli riferito al lavoro, con un livello di disoccupazione tra i più bassi che il Paese ricordi (4,10%, eravamo, sempre 8 anni fa, al 4,70%) e un livello di partecipazione al lavoro del 63,20% verso, all’epoca, il 62,70%.
Nel frattempo gli indici azionari, come sappiamo, non hanno smesso di salire, arrivando a toccare, anno dopo anno, nuovi record (vedi, per tutti, lo S&P 500, praticamente a 6.000 punti – era a 2.130 quando Trump varcò la Casda Bianca per la 1° volta), con Wall Street che “valutava” le società quotate 16,8 volte gli utili, mentre ora siamo a 23, mentre il rapporto tra prezzi di borsa e fatturato è passato da 1,95 a 3,13.
Tutti elementi che dovrebbero “consigliare” Trump a “volare basso” ed evitare “proclami” tipo “vi regalerò una nuova golden age”.
Ma ben sappiamo quale sia la sua indole, che non prevede, appunto, la “normalità” (fermo restando che è sempre difficile definire cos’è la “normalità”). E il suo “programma”, in un contesto come quello sopra riassunto, non si può certo definire “normale”, prevedendo tagli fiscali alle imprese e ai ceti più ricchi, dazi commerciali che possono arrivare al 60%, aumento consistente del debito pubblico: tutte cose che potrebbero riaprire la porta all’inflazione, vanificando le politiche monetarie “distensive” che la FED ha da poco iniziato ad attuare. Da qui, probabilmente, le preoccupazioni che qua e là, tra gli analisti e gli osservatori, cominciano ad emergere (e di cui la giornata di ieri sui mercati potrebbe essere la prima avvisaglia, anche se, va detto, la “luna di miele” tra i mercati USA e “the Donald” è ancora forte).
Dopo 5 sedute consecutive di rialzo, ieri sera lo S&P 500 si è preso (giustamente) una pausa (– 0,29%). Più pesante il Dow Jones (- 0,86%), mentre il Nasdaq ha chiuso appena sotto la parità (– 0,17%).
Questa mattina a Tokyo il Nikkei perde l’1,60%, per quanto lo yen continui la sua fase di debolezza relativa verso il $.
Sopra la parità, invece, Shanghai (+ 0,51%), mentre a Hong Kong l’Hang Seng perde lo 0,25%.
Ben più pesante il Kospi a Seul (- 2,64%).
Taiex Taiwan – 0,53%.
Apertura debole anche per la borsa indiana (Mumbai – 0,7%).
Futures anche questa mattina improntati alla debolezza, con ribassi “world wide” intorno al – 0,20/-0,30%.
Petrolio poco mosso (WTI $ 68,15, – 0,07%).
Gas naturale Usa $ 2,891 (- 0,72%).
Oro $ 2.613 (+ 0,18%).
Spread sempre vicino ai 130 bp (128).
BTP 3,63%.
Bund 2,38%, che hanno “retto” alla notizia delle elezioni anticipate, fissate per il prossimo febbraio.
Treasury 4,437%.
$ ancora più su, a 1,060 verso €.
Bitcoin a $ 88.350, dopo che ieri mattina aveva “rotto” il muro dei $ 90.000.
Ps: ormai è vicina la riapertura della Cattedrale di Notre-Dame, divorata dalle fiamme 5 anni fa. Una ricostruzione costata oltre € 700 ML, di fatto interamente coperta dalle donazioni (oltre € 846 ML arrivate da più di 150 Paesi). Difficilmente chi la visiterà “riconoscerà” (se non per le parti esterne) la Cattedrale forse più famosa al mondo (dopo S. Pietro), visto che l’interno è stato completamente rifatto, con materiale in alcuni casi molto diversi dagli originali. Ma in Francia, lo sappiamo, funziona così: da quelle parti, con la Cultura, “si mangia”, e anche bene.